PRODOTTI DALLE MANI SAPIENTI DELL'UOMO

SALAMA DA SUGO IGP

 

La “Salama da sugo” (o salamina) è un prodotto di salumeria costituito da una miscela di carni suine aromatizzate e successivamente insaccate. Il prodotto, dopo un opportuno periodo di stagionatura, può essere commercializzato crudo o come prodotto cotto. La zona di lavorazione, condizionamento e confezionamento della IGP comprende il territorio della provincia di Ferrara con esclusione dei comuni di Goro, Codigoro, Lagosanto e Comacchio. Ha forma sferica, detta a “melone”, legata con spago in 6/8 spicchi caratterizzati da una strozzatura mediana al centro che le conferiscono la forma caratteristica. La salama da sugo ha un sapore netto e deciso e al contempo elegante e intrigante che ne fanno uno dei prodotti di eccellenza della norcineria italiana. Si prepara utilizzando carni provenienti da goletta, capocollo, pancetta, spalla, lingua e fegato (in piccole quantità) che vengono macinate e alle quali viene aggiunto vino rosso, sale, pepe nero, noce moscata, cannella e chiodi di garofano; ogni artigiano poi la personalizza aggiungendo qualche altro ingrediente segreto. Le origini della “Salama da sugo” vedono la città di Ferrara come grande protagonista e sono riconducibili all’epoca rinascimentale, in particolare troviamo informazioni sulla tecnica di insaccatura dei salumi e sull’utilizzo del vino rosso, nei ricettari del 1549 di Cristoforo da Messisbugo, scalco (gran cerimoniere) alla corte degli Estensi. Viene cotta in pentola per diverse ore, possibilmente avvolta in un telo, immergendola in acqua bollente, ma senza farle toccare il fondo, utilizzando un cucchiaio in legno o un bastoncino appoggiato ai bordi della pentola che sosterrà la salama. Ottima accompagnata da puree di patate o di zucca, che si abbinano molto bene alla polpa granulosa e al suo sugo dal sapore intenso e leggermente piccante.

SALAME ZIA FERRARESE

 

La Zia Ferrarese fa parte dei salumi tradizionali e caratteristici delle campagne ferraresi. Viene preparata con carne suina, aromatizzata con sale, pepe ed aglio fresco, che viene lasciato precedentemente macerare nel vino bianco. L’aggiunta di questo ultimo ingrediente, da sempre coltivato con successo nelle campagne ferraresi, lega questo prodotto al territorio della città estense. Infatti le origini della “Zia ferrarese” o “Zzié ferrarese” sono antiche e riconducibili principalmente al periodo tardo rinascimentale. Viene insaccata in un particolare budello tondeggiante detto “Zia” che, una volta legato con uno spago fine, è messo a stagionare in cantine fresche e umide per diversi mesi. II legame del prodotto con l’ambiente è determinato dalle caratteristiche climatiche e del territorio. Lo studio dei suoli della provincia di Ferrara presenta aspetti unici in quanto, nel passato, gran parte dei suoi territori erano completamente ricoperti dal mare. Queste condizioni sono rimaste pressoché inalterate fino ai primi del XX secolo quando è stata realizzata la Grande Bonifica ferrarese. La situazione ambientale, tuttora caratterizzata dalla presenza di vaste aree umide oltre che dalla vicinanza del fiume Po, esercita una notevole influenza sul clima locale che si connota per un livello di umidità costante durante tutto l’anno. Ciò favorisce valori ottimali di temperatura, umidità relativa e ventilazione, indispensabili per una buona maturazione di questi salumi.

 

SALAME ALL’AGLIO FERRARESE


 

Il salame all’aglio, citato già in testi del Rinascimento, nel ferrarese si prepara tradizionalmente a partire dal 30 novembre, giorno di S. Andrea, e si prosegue, se il tempo è favorevole, fino agli ultimi del mese di gennaio, seguendo la tradizione della “beccaria”, ovvero l’uccisione casalinga dei suini e la preparazione dei salumi tramandata dai norcini locali. L’utilizzo dell’aglio come ingrediente caratteristico dei salumi di questi luoghi era citato nei ricettari del maestro Cristoforo da Messisbugo, scalco alla corte dei Duchi d’Este, ed in particolare nel suo ricettario “Banchetti, compositioni di vivande et apparecchio generale” del 1549. Il salame con l’aglio viene prodotto utilizzando le parti più nobili del maiale quali, ad esempio, il lombo, la spalla, il prosciutto. Alla coscia vengono poi aggiunti il sale e una lunga teoria di sapori la cui composizione varia da famiglia a famiglia e a seconda dell’estro del norcino. La stagionatura si protrae per tutta la stagione invernale in stanze non riscaldate, ma con un discreto grado di umidità affinché si possano formare le muffe sulla superficie esterna del salame. Vengono macinati conditi con sale, pepe nero, noce moscata e vino rosso. Questo deve avere un sapore robusto come il vino “uva d’oro” (o Fortana) che è un vitigno coltivato nelle sabbie del Delta del Po e nell’entroterra ferrarese. La quantità d’aglio da aggiungere dipende dal gusto personale, mediamente è di circa 2-3 spicchi ogni 10 kg di carne macinata e deve essere finemente tritato quasi a formare una poltiglia, successivamente va incorporato nell’impasto. Un altro metodo largamente praticato prevede di schiacciare l’aglio con un attrezzo di legno fino a ridurlo in poltiglia e quindi introdurlo in una parte del vino rosso da usare per la concia perché rilasci in esso l’aroma e si distribuisca meglio nell’impasto.

BËL-E-CÖT


 

Questo insaccato tradizionale, originario nella Provincia di Ravenna, prende il nome dal fatto che nelle botteghe veniva venduto in grandi paioli “già cotto” da cui il nome dialettale “Bël-e-cöt”. Le testimonianze storiche ne danno la paternità alla città di Russi (Ra) dove ancora oggi durante la “Fira di Sët Dulur” (Fiera dei sette dolori), che si svolge a Russi la terza domenica di settembre, è consuetudine proporre questo prodotto della tradizione romagnola. Per evitare che questa prelibatezza potesse essere confusa con il cotechino è stato stilato un vero e proprio disciplinare che specifica la tipologia e la quantità di prodotti da utilizzare per la sua preparazione, specificando con precisione le parti anatomiche del maiale che devono essere utilizzate per la preparazione dell’impasto che sono: i muscoli della testa, della coscia e della spalla, goletta e cotenna la quale ha la proprietà di conferire al prodotto la caratteristica collosità, chiamata nel dialetto locale “inciach”. Queste parti vengono utilizzate nelle seguenti proporzioni: 40% di muscoli e 30% rispettivamente di goletta e cotenna alle quali vengono aggiunti sale, pepe, aromi naturali e vino. L’impasto così ottenuto viene impastato per amalgamare i vari ingredienti e infine insaccato in budella naturali di bovino che vengono forate per agevolare l’uscita del grasso e prevenire la rottura della pelle in fase di cottura che si protrarrà per 3-4. Le ricette che lo vedono protagonista sono numerose e spesso molto fantasiose ma, la tradizione a Russi predilige che il Bël-e-cöt venga accompagnato ad una fetta di pane insipido, purè di patate o fagioli stufati, naturalmente accompagnandolo con un buon bicchiere di “canéna nuova” (il vitigno è Refosco, localmente denominato Terrano), meglio se nella versione frizzante.

SQUACQUERONE DI ROMAGNA DOP

 

Lo Squacquerone di Romagna DOP è un formaggio a pasta molle, morbido e cremoso di colore bianco perla, prodotto con latte vaccino nel territorio che comprende le province di Ravenna, Forlì-Cesena, Rimini, Bologna e parte di quella di Ferrara. È il classico compagno della piadina Romagnola, in dialetto è chiamato squaquaròn per indicare che, per l’elevata quantità di acqua che contiene ed essendo molto molle, tende ad assumere la forma dell’oggetto in cui è contenuto e deve quindi squacquerare. È composto per circa il 60% di acqua ed è privo di crosta. La tradizione popolare fa risalire la sua origine al I secolo d.C. Ha ottenuto il marchio DOP nel luglio del 2012, viene prodotto con latte, sale, caglio di vitello e fermenti lattici che trasformano il latte conferendogli la cremosità che lo ha reso famoso e molto apprezzato anche fuori regione. Le aziende virtuose utilizzano per la salatura solo il “sale dolce di Cervia”. Il suo matrimonio, come detto precedentemente, viene di solito effettuato con la piadina romagnola e la rucola, ma i buon gustai sanno che le ricette tradizionali prevedono l’uso di cavoli o verze, saltati con la pancetta. Ottimo è anche l’abbinamento con fichi caramellati o marmellata di arance amara. Capita raramente, ma nel caso dovesse rimanerne un pochino, viene utilizzato come ripieno per i primi piatti della tradizione contadina di Romagna.

COPPIA FERRARESE IGP

 

La ciupèta è il tipico pane ferrarese, rinomato per la sua bontà e per le forme accattivanti. Chiamato anche il pane dei nobili perché all’epoca della sua diffusione solamente le famiglie benestanti potevano permettersi di avere farina bianca setacciata (ottenuta con mulini a pietra). La storia racconta che nel 1536, in occasione di una importantissima cena offerta da Messer Giglio al Duca di Ferrara si incomincia a parlare di un pane intorto e ritorto. Fu ideata da Cristoforo da Messisbugo, siniscalco o scalco (gran cerimoniere e maggiordomo) alla corte degli Estensi nel Granducato di Ferrara, per i banchetti d’onore. La coppia anche dal punto di vista della simbologia riveste un ruolo significativo, infatti la ciupèta presenta la caratteristica di avere quattro cornetti croccanti riuniti da una parte centrale soffice e morbida, la sua forma simbolizza il connubio fra l’essenza maschile e femminile e quindi mangiandola si pensava che donasse forza e fertilità. La tradizione della ciupèta è rimasta particolarmente radicata nel territorio, tanto che è da sempre prodotta nei panifici ferraresi ed inoltre fino alla metà dello scorso secolo è sempre stata prodotta e consumata anche nei piccoli forni a legna rustici delle case coloniche nella campagna ferrarese. Il segreto del suo successo è dovuto alla qualità degli ingredienti e dell’acqua, all’ambiente di lievitazione caldo-umido, alla sapienza di una tradizione secolare degli abitanti del luogo e dei fornai ferraresi, capaci di trasformare e dare la vita a farina e acqua. Il rito della panificazione casalinga iniziava preparando prima il lievito, lavorando la pasta madre, preparata con un impasto di sola acqua e farina, fermentato naturalmente. Il tutto era riposto nella spartùra (la madia), dove nel corso della notte si completava il processo di lievitazione. Per la lavorazione del giorno seguente veniva tenuta a parte una pallina dell’impasto per la lievitazione della notte seguente, la cosiddetta madre. Le donne preparavano la pasta, passandoli per la gramadora, una primitiva macchina di legno che “accoppava” l’impasto. Poi tutti si impegnavano nella preparazione del pane, dandogli la tradizionale forma o sbizzarrendosi in tante altre forme suggestive come la ricciolina (rizzata) e tante altre che sono oggi purtroppo dimenticate. La mezza coppia prende il nome di “vedova”.

PIADINA ROMAGNOLA IGP

 

Prodotto povero e contadino, la piadina romagnola tradizionalmente preparata con farina, acqua e strutto, è uno dei prodotti romagnoli maggiormente conosciuti in Italia e all’estero. Ha recentemente avuto il riconoscimento di prodotto IGP. Prodotto semplicissimo che da sempre ha alimentato la “buona rivalità sanguigna tipica dei Romagnoli”, infatti, in ogni borgo o rione della Romagna, dalla costa all’Appennino c’è chi sostiene di avere la paternità della vera ricetta della Piadina Romagnola “come si faceva una volta”. Si tratta di piccole varianti, su impasti molto simili tra loro che a volte differiscono solamente per le dimensioni, lo spessore o, in tempi più recenti, nell’aggiunta di un pochino di lievito o di bicarbonato per renderla più soffice. Procedendo sulla via Emilia o nelle viuzze di quartiere, troverete tantissimi chioschi con le proposte e i condimenti più disparati, vi accorgerete che la piadina si differenzia anche di forma e dimensione: si passa dalla piadina del cesenate più spessa e soffice, a quella del riminese più grande e sottile. Tutto ciò non pregiudica la bontà e la fragranza di questo cibo di strada che veniva cotto nel tradizionale “testo” di terracotta. Sarete affascinati nel vedere ancora le sapienti mani delle azdore che impastano ancora a mano preparando tante pagnottine che saranno poi tirate (stese) con il mattarello. Non a caso Giovanni Pascoli la definì il “cibo nazionale dei romagnoli”. Tantissimi gli abbinamenti per la farcitura, dal classico squacquerone e rucola, al prosciutto di mora romagnola o la porchetta arrosto, fino ad arrivare nelle zone più vicine al mare, all’utilizzo del pesce azzurro come la saraghina con scalogno o cipollina fresca.

POLLO ROMAGNOLO

 

Il Pollo Romagnolo è una razza autoctona un tempo molto diffusa in tutta la Romagna, questo animale è decisamente rustico, molto resistente e ha una certa tendenza al volo, per cui da sempre viene allevato all’aperto, spesso lo vediamo razzolare nelle aie delle case di campagna e dormire appollaiato sui rami degli alberi. I primi documenti che parlano del pollo romagnolo risalgono alla fine dell’ottocento. Si tratta di una razza caratterizzata dalla livrea variopinta. È un animale di taglia medio-piccola a lento accrescimento il maschio raggiunge i 2,5 chilogrammi e la femmina 2 chilogrammi in circa 8 mesi: troppo tempo per i ritmi degli allevamenti intensivi moderni, questo è probabilmente uno dei principali motivi che hanno portato all’abbandono dell’allevamento di questa razza. La carne é consistente e molto saporita. È comunemente diffuso nella zona che comprende la Romagna e parte dell’Emilia con le province di Ravenna, Forlì-Cesena, Rimini e Bologna. La livrea è alquanto varia come dimostrato anche dalle foto d’epoca, ma si può supporre fossero comuni il mantello argentato il grigio “argento fiocchi neri”, rosso dorata “oro fiocchi neri”, bianco e perniciato. Nelle campagne romagnole quando alle prime luci del giorno sentirete il canto del gallo, potrete trovare questi stupendi esemplari razzolare nelle aie, potrete accompagnare le Azdore (massaie) nel pollaio per raccogliere le uova fresche oppure potrete gustare, nei giorni di festa, le ottime carni di questi animali, sapientemente preparate dalle genti di questi luoghi, avendo la possibilità di assaporare aromi e sapori unici, uniti ad un buon calice di Sangiovese di Romagna.